La condizione operaia. Il senso di uno sciopero

Parlare di condizione operaia contemporanea rischia di essere un esercizio pretenzioso e c’è la seria probabilità di dire banalità anacronistiche. Tuttavia dal mio parziale punto di vista – da operaio dei servizi che lavora principalmente nell’ambito dell’assistenza tecnica – tenterò, in maniera molto pratica e poco ideologica, di descrivere i cambiamenti pratici che influiscono sia sul quotidiano sia in prospettiva, che modificano cioè la percezione del proprio presente e futuro lavorativo.

Di sicuro, e qui rischio forse una banalità, la condizione comune è il senso di incertezza e di impotenza di fronte a cambiamenti epocali nella gestione produttiva che rende tutti precari, in pratica soggetti a una sorta di “algoritmizzazione” della vita.

Se i sindacati, fino a qualche tempo fa, potevano contrattare le condizioni salariali e lavorative con un certo margine di compromesso, adesso assistiamo a una reale impossibilità di contrastare le decisioni delle multinazionali di tagliare, spostare, chiudere fabbriche, reparti produttivi, filiali, ecc. quando e come vogliono in base alla possibilità di aumentare i margini di profitto. Quello che voglio dire è che la responsabilità sociale invocata dai riformisti di ogni tempo e luogo è sempre stata una menzogna, adesso però nessun velo di ipocrisia o di buone intenzioni dichiarate possono nascondere la realtà. Questo è un bene? Forse, ma ci arrivo dopo.

Uberizzazione operaia e sicurezza

Sempre partendo dalla mia condizione lavorativa personale, ciò che maggiormente si percepisce come oppressiva è, appunto, la schiavitù della piattaforma. Tempi, spostamenti, interventi di manutenzione o di riparazione sono contingentati e dettati da una app con la quale bisogna costantemente comunicare affinché le ore lavorate vengano poi monetizzate. La razionalizzazione informatica propone tempi sempre più stretti, limita i tempi di spostamento indicando il percorso più funzionale con l’aiuto di navigatori satellitari, ecc. e ogni azione è soggetta a un continuo controllo, dove la cosiddetta tecnologia 4.0 consente addirittura di monitorare l’impianto da remoto, sempre con l’ausilio di un’app che comunica via internet con un apposito dispositivo installato.

Da queste poche note si capisce che l’obiettivo è duplice: trovare nuovi prodotti da fornire agli utenti e anticipare i processi e i moduli di intervento rendendo chiunque, con una minima formazione informatica, in grado di effettuare l’intervento prescritto. Premetto che, personalmente, non ho mai creduto alla differenziazione sul tema della “professionalità”; tuttavia in questo caso il progresso tecnologico aumenta il livello di precarietà dal momento che chiunque, vecchio o giovane che sia, esperto o meno che sia, può essere sostituito quando e come si vuole.

Tutti i processi ovviamente hanno lati positivi se visti in senso materialista e di una società diversa da quella presente; nel caso in questione, però, bisogna considerare chi gestisce tutta la procedura organizzativa e chi progetta gli algoritmi, che di sicuro non pensa a facilitarti la vita ma ad aumentare la produttività sotto la spada di Damocle del ricatto lavorativo.

La tecnologia non è neutra e in molti casi la probabilità che i ritmi possano anche influire negativamente sui livelli di sicurezza è sempre alta. Nessuna impresa dice esplicitamente di non utilizzare tempi e metodi compatibili con il lavorare in sicurezza, specie se si tratta di grandi aziende. Nella maggior parte dei casi i protocolli sono sempre comunicati, i DPI sono sempre forniti, gli audit sono costanti (spesso punitivi, cioè si trasformano in un’altra forma di pressione) ma salta agli occhi la contraddizione esplicita, riguardante da un lato lo scarico di responsabilità di fatto in capo al lavoratore e dall’altro l’interazione procedure/sicurezza che viaggia sempre sul filo dell’incertezza, favorendo comportamenti che – sfido chiunque a dire il contrario – spesso sono in contrasto con le norme minime di sicurezza. Una battaglia reale sarebbe quella di far emergere questa contraddizione seguendo tutte le procedure di sicurezza come fatto prioritario rispetto ai tempi imposti dall’algoritmo o dalla piattaforma.

Il lavoro “essenziale” ai tempi del Covid-19

La maggior parte delle fabbriche e del comparto tecnico non si è fermata durante la pandemia. Lavori di assistenza tecnica operaia nell’ambito delle riparazioni di impianti tecnologici (impianti di comunicazione, di meccanica, trasporto ascensoristico, trasporto in generale, ecc.) sono stati definiti essenziali e su questo si potrebbe, al limite, anche concordare. Qui, però, il rischio inerente alla sicurezza lavorativa aumentava dal momento che ai fattori consueti di probabilità di infortunio si aggiungeva anche quello del contagio.

Anche qui la differenza di comportamento da parte delle varie imprese è stata abissale fra chi potendo gestire le forniture, i protocolli, le dotazioni di sicurezza muovendo capitali sul piano globale è riuscita a tenere sotto controllo il fattore di rischio ed altre che, in una situazione di calo di profitti in determinate aree, ha dovuto cedere solo dopo una dura battaglia dei lavoratori che sono infine riusciti a ottenere un minimo margine di sicurezza e un protocollo condiviso: è corretto in questo caso parlare di vittoria operaia. Eppure, anche qui abbiamo assistito a una impennata di contagi sui luoghi di lavoro e a una levata di scudi degli imprenditori che, spalleggiati dal politicante di turno, negavano il riconoscimento dell’infortunio al lavoratore contagiato. Emblematico il caso del governatore/cabarettista della Campania, al secolo De Luca, che affermava: “Gli imprenditori hanno ragione” nel rivendicare addirittura uno scudo penale sui casi di contagio nei luoghi di lavoro, peraltro riconosciuti dall’INAIL.[1]

Inoltre e non è un fatto secondario, tutte le aziende medie, piccole e grandi non hanno esitato ad approfittare dello smaltimento ferie e della cassa integrazione (le due cose adottate in rapida sequenza e in maniera perversa) anche laddove non c’erano particolari condizioni di sofferenza finanziaria, il che ha inciso sensibilmente sul salario operaio.

In definitiva, per concludere, possiamo affermare che, parlando di condizione operaia, non esistono dubbi sul fatto che in nome del profitto i lavoratori sono stati trattati come carne da macello e che i veri negazionisti sono stati molti imprenditori o managers senza scrupoli.

Livelli salariali, nuovi scenari inflattivi e welfare aziendale

Dai dati OCSE il salario medio lordo annuale 2019 in Italia era 30.028 euro, circa 12.400 meno rispetto alla Germania e oltre 9.000 meno che in Francia. “Il divario, preoccupante di suo, è aggravato dalla lettura tendenziale (…) – riporta la ricerca “Disuguaglianze e salari, una visione europea”, che l’ufficio studi Isrf Lab sta per pubblicare – Negli ultimi venti anni i salari italiani sono stati pressoché stagnanti: tra il 2000 e il 2019 circa 900 euro in più, con enormi e crescenti divergenze sul piano di genere, anagrafico, territoriale e della dimensione aziendale”.[2]

A fronte di uno scenario simile, nell’ultimo periodo assistiamo all’annuncio del rincaro delle bollette energetiche fino al 40%. Alla beffa della pandemia per chi si è dovuto fermare e aspettare una cassa integrazione irrisoria, che magari ancora deve percepire per intero, si aggiunge il danno di un aumento dei generi di prima necessità:[3] il collegamento è diretto, cioè aumentano i costi dei trasporti e del capitale fisso che richiede l’utilizzo di fonti energetiche, e aumenta quasi tutto.

La riapertura delle scuole, con le assunzioni restate al palo, con nuove figure di insegnanti sempre più precarie, il nulla cosmico fatto in tema di miglioramento della sanità pubblica sono una serie di scelte governative che colpiscono principalmente chi vive di stipendio. Se a questo colleghiamo tutta una serie di iniziative portate avanti da sindacati e aziende, come le piattaforme di pensione e l’assistenza medica integrativa, viene il sospetto che è in corso una transizione perversa verso un modello statunitense di assicurazioni garantite dal datore di lavoro.

Se un lavoro non lo hai più, cosa sempre più probabile in questa fase, il rischio di non essere curato o essere curato in enorme ritardo aumenta. Anche sul fronte pensionistico accadrà che dopo 43 anni di lavoro o 67 anni di età l’ammontare pensionistico non basti nemmeno a pagare un affitto decente senza un’integrazione fornita dai fondi pensione che, oltretutto, corrono anche il rischio di cadere in bolle speculative o in giochi di borsa a perdere. Anche in questo caso, di là del discorso apparentemente semplicistico, il “tutto sarà come prima” si è tradotto nel “tutto è peggio di prima”.

Sullo Sciopero generale

Sento spesso i miei colleghi di lavoro, ma anche molti lavoratori dire che lo sciopero, generale o meno, è un’arma spuntata. Non coinvolge l’intera massa dei lavoratori ed è sempre indetto da una parte dei sindacati, ecc. ecc. Non sono d’accordo e spiego perché.

Se è pur vero che i vari scioperi, sia di singole fabbriche sia generali, se guardiamo agli ultimi anni, non hanno inciso né sulla condizione lavorativa né su quella salariale né su quella occupazionale, è altresì vero, come dicevo all’inizio, che ormai il re è nudo… Le poche cose che ho descritto troveranno pochi lavoratori in disaccordo.

Il punto è proprio questo: chiusi nel microsmo della propria realtà lavorativa tendiamo a interpretare le nostre condizioni come un unicum rispetto al resto del mondo operaio e lavorativo. In realtà ci accorgiamo che le condizioni e gli standard di controllo, di aumento dei ritmi imposti da una tecnologia che si presenta come oggettiva, ecc. tendono sempre più a rendere i processi produttivi omologhi. Il primo passo per una presa di coscienza è la scoperta di non sentirsi soli. Sembra una cosa banale e, detta così, al limite dell’esistenzialismo – invece credo che sia fondamentale. Lo sciopero ha in sé una potenzialità enorme e quello dell’11 Ottobre, coinvolgendo lavoratori di diversi settori, può contribuire a spezzare l’atomizzazione attuale.

Le rivendicazioni e la piattaforma che indicono lo sciopero hanno una caratteristica fortemente unificante. Viviamo un momento che vede una sorta di ripresa produttiva che sta scatenando una corsa a un improbabile “recupero del tempo perduto” da parte delle imprese che rischia di fagocitare i lavoratori stessi. I morti sul lavoro da inizio anno sono stati 677 (i dati sono tristemente in continuo aggiornamento visto che parliamo di una media di 3 morti al giorno: noi scriviamo queste righe sabato 2 Ottobre). Le denunce di infortunio sul lavoro (quelle presentate all’Inail) entro lo scorso mese di luglio sono state 312.762, quasi 24mila in più (+8,3%) rispetto alle 288.873 dei primi sette mesi del 2020.[4]

Se poi consideriamo che gli infortuni, mortali soprattutto, si concentrano tutti in pochi mesi a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, si conferma questa tendenza che descrivevo. Lavorare in sicurezza non vuol dire solo pretendere che le aziende non risparmino sui costi (questo è vero sempre): anche sottoporre a ricatti, controlli e pressioni continue influisce enormemente sui fattori di rischio.

In conclusione a mio avviso è più che opportuno uno sciopero generale in questa fase di ripresa lavorativa affinché tutte le cose che ci siam detti durante il periodo di restrizioni (sicurezza, sanità, trasporti, istruzione e condizioni di lavoro e salario da migliorare) non siano dimenticate, affinché il collegamento fra lavoratori sia costante, affinché questa assurda corsa alla ripresa non ci conduca al “peggio di prima”.

Flavius

NOTE

[1] Il Corriere del Mezzogiorno, 9 Maggio 2020, pag. 6 – vedi anche https://umanitanova.org/pandemia-e-luoghi-di-lavoro/

[2] https://www.repubblica.it/economia/2021/08/07/news/i_salari_sono_fermi_da_vent_anni_la_cgil_riformare_la_contrattazione_-313329221/

[3] https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/21_settembre_15/aumenta-prezzo-pane-l-allarme-confcommercio-977ad412-1630-11ec-a09f-b340966fbbc2.shtml

[4] https://bit.ly/3uyqxIG

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